Afro Samurai Resurrection

…Dall’America con furore, nuove avventure del silente e vendicativo samurai nero.

Afro Samurai Resurrection


Il film si colloca dopo gli avvenimenti della serie antecedente. Afro è diventato il numero uno, ma si è ritirato a vita segregata. Purtroppo pare che non vogliano lasciarlo in pace: vanno a distruggere la sua casa, lo malmenano, gli rubano la fascia e lo minacciano addirittura con la risurrezione del padre, riportato in vita solo per farlo soffrire! Ma come mai tanto odio nei suoi confronti? Forse che conosce i suoi nemici da molto tempo? Dovrà di nuovo immergersi nel sangue e nella violenza, per aver alfin la pace?

Sicuramente chi guarda questo film avrà apprezzato la serie, e si troverà famigliare con la curiosa ambientazione super-anacronistica che esiste. Giappone medievale con cellulari, scarpe tradizionali con cuscini molleggiati, ninja con visori notturni, katane e lanciamissili, tutto risulta ottimamente mischiato per creare un mondo curiosamente funzionante, dove l’esagerazione di tali incongruenze diventa coerenza a sè.

La storia è abbastanza semplice e lineare (ancora una volta, vendetta su vendetta), e difficilmente sorprenderà lo spettatore: serve però a traghettare il protagonista attraverso le varie battaglie che ci vengono proposte.
La parte dei combattimenti è fatta dignitosamente, anche se a mio parere alcuni sono eccessivamente statici mentre altri sono troppo confusionari, ai limiti dell’incomprensibilità visiva: uno stile fluido ma pulito avrebbe forse potuto aiutare.
Gli sceneggiatori non si sono inoltre sicuramente limitati nelle idee: nonostante la storia non sia chissà cosa, parecchi avvenimenti risultano pseudo-comici per la voluta assurdità della scena (samurai cadaveri clonati rivissuti che, al fianco di ninja volanti zombie robotici, aiutano mutilati afasici rinchiusi in giganteschi orsi di peluche…). Il trash spesso disturba, ma qui è talmente esagerato che risulta intrattenente.

Una delle parti più importanti è fatta dai personaggi, estremamente caratterizzati. Se Afro è il solito silente guerriero, ritorna in grande stile il suo compagno di viaggio, ciarliero come non mai e doppiato da Samuel L. Jackson. I testi di tale personaggio sono spassosi e ben si contrappongono alla serietà tendente al tragico del film.
Anche gli avversari sono ben creati: si ritrovano i personaggi della prima serie, chiaramente mutati rispetto al passato, che quindi danno continuità alla storia. Avere la scusa di una nemica femminile per poter mettere buone quantità di fanservice è forse stato un richiamo troppo forte; va detto che non si arriva al livello da avvertirne la noia, ed in fin dei conti è un bel vedere.

Il disegno ha un buono stile, interessante e dinamico, anche se -come detto sopra- ogni tanto un po’ tanto caotico. La musica ha un ruolo assolutamente primario in questo film, e farà molto piacere a chiunque apprezzi la musica hip hop: canzoni fatte apposta per l’occasione suonano in buona parte dell’ora e mezza di proiezione, aggiungendo valore ad ogni singola scena.

Insomma, Afro Samurai Resurrection è sicuramente un riuscito seguito di un’originale serie, creata fuori dal Giappone ma che ben si inserisce nel panorama deglianime. Rispetto alla serie che lo precede riesce a sviluppare le parti interessanti senza dover sorvolare personaggi rilevanti o avere combattimenti affrettati. L’ambientazione e le musiche portano ulteriore qualità alla situazione, facendo risultare la visione piacevole e divertente.

Voto: 8. Una gradevole ora e mezzo di visione, che passa con piacere anche se senza eccellenze particolari.

Consigliato a: chi ha apprezzato la serie, e ne vuole sempre di più; chi ama la musica rap americana, e la combinazione con gli anime gli pare azzeccata; chi vuol sentire Samuel L. Jackson dire “So what we’re doin’ next, what about getting a lil’ push push first, you know what I’m sayin’?”

Kemonozume

…L’amore impossibile tra un mostro e un cacciatore di mostri.

Kemonozume


Toshihiko è il futuro successore di un dojo molto particolare: da migliaia di anni, infatti, la sua famiglia protegge l’umanità da dei mostri, chiamati divoratori di carne, che cacciano gli uomini per mangiarseli. L’unico modo per sconfiggerli è tranciare le loro braccia, in cui risiede il loro potere: Toshihiko è un ottimo spadaccino, ma poco prima di dare il colpo finale ha sempre… ehm… problemi di stomaco e non riesce a finire il suo lavoro.
Dopo l’ennesima discussione con il suo fratellastro in merito all’eredità del dojo, Toshihiko fa un incontro che pare guidato dal fato: incrocia Yuka, un’istruttrice di paracadutismo di cui si innamora perdutamente a prima vista. Dopo alcuni strani lutti, però, si scopre una tragica realtà: Yuka è un divoratore di carne! La fuga dei due spasimanti mette in moto molte differenti vicende; riuscirà il loro amore a prevalere sull’insaziabile fame che abita in Yuka? Il dojo Kifuuken riuscirà a tirare avanti nella sua tradizione millenaria? Cosa si nasconde dietro al sempre crescente numero di divoratori?

Inizio dicendo che Kemonozume è una storia tragica, molto tragia. In tutti i vari aspetti che si seguono le cose vanno in maniera sempre più disperata e angosciante, spezzando sogni e distruggendo ambizioni.
L’amore tra i due protagonisti è intenso ma difficilissimo: dopo i primi fuochi dell’amore fresco, iniziano molti problemi dovuti alla loro condizione di fuggiaschi unita alle complicazioni che la natura di lei portano con sé. Anche il fratellastro Kazuma, desideroso di ereditare il dojo ma in fin dei conti solo bisognoso di riconoscimento, vede tutti i suoi sogni distruggersi uno dopo l’altro.
L’esistenza stessa del Kifuuken, ad un certo punto, viene messa in dubbio: quando al suo interno le basi iniziano a scricchiolare, mille anni di tradizione non possono nulla.
Questo fa capire quanto ci siano varie trame che si intrecciano (anche abbastanza bene, invero), e quanto le stesse seguano tutte il comune filo dell’angoscia. Solo la penultima e l’ultima puntata risultano un po’ meno comprensibili, e soprattutto nella parte conclusiva si perde un po’ la logica che aveva seguito l’intera serie per arrivare a sfiorare il nonsense: un peccato. L’ambiente si fa comunque via via più disperato, e la resa dei conti è sicuramente impietosa con buona parte dei protagonisti e coprotagonisti.

Parlando di questi ultimi, si può dire che Toshihiko e Yuka sono due personaggi ben fatti: lo sviluppo del loro amore è credibile in virtù delle oceaniche differenze che li separano, e parecchi discorsi che fanno sono condivisibili (seppur difficili da applicare alla vita normale, visto che di mostri divoratori di carne in giro non ce ne sono molti). Fanno quel che ci si aspetta da loro – principalmente scappare – e tengono bene la scena.
I coprotagonisti hanno fasi alterne: Kazuma inizialmente sembra un totale idiota e pare essere il cattivo della situazione, ma con il tempo si capisce che le sue azioni hanno motivazioni e ragioni come quelle della controparte. Sono rimasto invece un po’ deluso dalla prima compagna di Toshihiko, che inizialmente sembrava un’ottima persona ma poi ha un paio di cadute di stile, comprensibili dal punto di vista personale ma che rovinano un po’ il personaggio.

Arriviamo ora a quello che, secondo me, è il vero problema della serie: il disegno. Io capisco che il tratto “abbozzato” sia uno stile di disegno utilizzato nell’animazione, ma non riesco sinceramente a capire come una simile pastrocchiata possa piacere a qualcuno. Dopo un po’ ci si fa l’abitudine e gli occhi smettono di sanguinare, ma questo tipo di tratto (uguale a quello ritrovato in Kaiba e in Mind Game) rovina tutta l’azione che può esserci in uno scontro con le spade, tutta la sensualità (e ce n’è parecchia in Kemonozume) che può nascere dal contatto fisico… tutto. È un vero peccato, perché con un disegno più convenzionale – anche se non si fosse arrivati a tratti eccellenti – il risultato sarebbe stato molto migliore.
Grazie al cielo almeno le musiche se la cavano bene, con un’opening jazz acusticamente gradevole e un’ending tranquilla e appropriata. Durante le puntate il sonoro è poco, in virtù dell’ambiente oppressivo e cupo che permea tutte le tredici puntate.

Insomma, Kemonozume è un lavoro fatto con decente qualità: un paio di pecche, però, ne limitano fortemente la guardabilità. Un finale un po’ tanto fuori tono per come era andata fino ad allora la serie, e soprattutto il disegno inguardabile, fanno sì che solo chi abbia una buona determinazione arrivi fino alla fine senza cambiare serie solo per poter rilassare gli occhi. Davvero un peccato.

Voto: 6,5. La storia merita parecchio, l’applicazione della stessa merita moderatamente, il disegnatore merita di esser crocifisso.

Consigliato a: chi non si offende se il disegno fa schifo; chi non ha paura di depressione, morte, angoscia e disperazione; chi vuol vedere una scimmietta che non fa nulla di utile ma in realtà fa partire la storia, la guida nella parte centrale, porta i personaggi dove devono andare e risolve il climax finale.

RahXephon

…Un erede di Evangelion: robottoni e cervello affaticato per tutti!

RahXephon


Ci troviamo in un vicino futuro. A seguito di una guerra, solo la città di Tokyo pare esser rimasta in piedi: si dice che in tutto esistano ancora pochi milioni di umani. La vita scorre tuttavia abbastanza normalmente: Kamina Ayato è un normale diciassettenne alle prese con scuole, esami ed amicizie fino a quando dei nemici giunti dal nulla non iniziano a bombardare la città. Nella confusione Ayato viene prelevato e portato “all’esterno”: si scopre infatti subito che in realtà il resto del mondo e i suoi abitanti sono tuttora esistenti, e che a partire dal 2012 Tokyo è rimasta isolata da un campo dimensionale chiamato “Tokyo Jupiter”.
Quella che si pensava l’ultimo baluardo degli umani pare invece essere il covo di coloro che tramanno alla distruzione del mondo: ma le cose stanno davvero così? La differenza di dodici anni tra Tokyo e il resto del mondo quali effetti potrebbe portare? E di chi potrà fidarsi Ayato, considerando che in ogni fazione tutti paiono avere secondi motivi per tutto?

Come si può già capire da quanto sopra scritto, la storia è estremamente intricata. La trama è infatti fitta di personaggi, collegamenti, sotterfugi, alleanze, rapporti d’interesse e chi più ne ha più ne metta. Bisogna stare attenti ad ogni dettaglio e tentare di memorizzare più o meno tutto, o si rischia la più totale confusione: devo ammettere di aver fatto molta fatica a seguire il filo della narrazione, e nelle puntate centrali per intere sezioni mi sono arreso tentando semplicemente di raccattare qualche informazione senza grande chiarezza sul perché accadesse qualcosa.
A difesa della trama, tuttavia, va detto che alla fine tutto quadra: i mille frammenti sparpagliati per le puntate si riuniscono a comporre un mosaico di notevole complessità, che però a posteriori pare molto chiaro, quasi ovvio. Rimane il fastidio per essersi persi durante parecchie puntate, ma perlomeno alla resa dei conti non si rimane senza spiegazioni.
L’OVA (che non va assolutamente visto prima della serie!!) aiuta ripassando le vicende narrate -seppur con qualche cambiamento qui e là-, e in un paio di casi spiega un paio di retroscena e aiuta, a posterori, a capire meglio cosa sia successo in un paio di punti.

I personaggi sono diversi e, nonostante parecchi passino attraverso diversi ruoli durante la serie, le loro caratteristiche sono abbastanza lineari: questo non vuol dire che siano fatti male o che siano bidimensionali, ma una volta inquadrati si inizia ad intuire quali potranno essere i risvolti delle varie azioni intraprese.
A titolo personale, una delle cose che ho gradito meno di questa serie è tuttavia il lato sentimentale che è parecchio presente (sebbene non ammorbante): Ayato ha la malattia di molti protagonisti di anime, quello di essere al centro delle attenzioni di quasi tutto il cast, mentre in realtà la logica suggerirebbe altro. Anche in questo caso buona parte delle relazioni e delle motivazioni ad esse correlate vengono date con il tempo (quasi tutte attorno alla fine, quando i nodi vengono al pettine), ma questo non toglie che ogni tanto la cosa mi ha dato non poco fastidio. Va comunque detto che generalmente i sentimenti portano al loro aspetto più tragico o doloroso (l’amore significa abbandono o gelosia, l’amicizia significa tradimento o sacrificio), e questo aiuta a creare l’atmosfera cupa di cui parlerò tra un attimo.
Lo sviluppo personale dei alcuni personaggi è abbastanza notevole, sebbene non sempre logicissimo: ogni tanto tre parole in croce fanno cambiare totalmente idea alla persona in questione, ma nel complesso la progressione comportamentale può essere considerata soddisfacente. Qui e là si nota che i personaggi si comportano in un dato modo per motivi di copione, ma è pienamente accettabile al fine di mandare avanti la massiccia storia.

Contrariamente a quanto si possa pensare, i combattimenti tra robottoni sono una parte assolutamente minoritaria: ci sono, è vero, ma occupano generalmente poco tempo e sono importanti soltanto per ciò che significano, e non per il combattimento in sè.
Infatti spesso e volentieri, soprattutto nella seconda metà delle ventisei puntate che componono la serie, tali eventi sono legati a motivi particolari che toccano Ayato o qualcuno a lui vicino – generalmente portando qualche cattiva notizia.
La serie inizia infatti con qualche battuta sparsa qui e là, ma va man mano trasformandosi in una vicenda sempre più cupa fino a diventare, a mio parere, davvero pesante sul cuore. Questo non vuol dire che i personaggi piangono a dirotto o che ci sono precisi eventi traumatizzanti (sebbene un paio ce ne siano, dal punto di vista di chi è coinvolto), ma c’è un generico senso di oppressione e di sconfitta che permea gli accadimenti. Presumo che tale aspetto sia pienamente voluto, e sicuramente il messaggio passa appieno.

Va inoltre segnalato che, anche senza andare a cercare su Wikipedia o simili, si nota che ci sono molte referenze a culture realmente esistite: le culture dell’America precolombiana sono presentissime (l’intera terminologia che sta dietro allo Xephon deriva direttamente da tali antiche lingue) e, andando a controllare, si nota che i riferimenti anche in altri ambiti sono davvero molti e accurati. Questo non è che porti qualcosa di più alla storia in sé, ma vuol dire che alla base -oltre ad una storia studiata a tavolino con estrema attenzione- c’è un lavoro di ricerca non del tutto indifferente, per far sì che i vari termini abbiano significati che tra loro abbiano pertinenza, e questa non può che essere una buona cosa.

Il disegno, per essere del 2002, è a mio parere un tantinello scarsino quando si tratta delle persone: altre cose sono disegnate in maniera più decente (ad esempio, i Dolem) ma secondo me avrebbero potuto sprecarsi un po’ di più.
L’audio è più curato, considerando che “la melodia” è uno dei punti centrali: opening simpatica, ending accettabile, e soprattutto un seppur pezzo di musica classica che ha un ruolo nella storia e che rende felice l’orecchio che lo sente.

Non si può tuttavia chiudere questa recensione senza parlare del fatto che RahXephon trae moltissimi aspetti da Neon Genesis Evangelion: abbiamo l'”eroe per caso”, che deve accettare suo malgrado il ruolo dell’eroe; un forte personaggio femminile che lo accompagna; dei nemici muti, volanti e vagamente inquietanti (sebbene gli Angeli fossero di forme strane e misteriose, mentre in questo caso i Dolem hanno un’aria più vittoriana); il progressivo cedimento verso un nemico sempre più inarrestabile; si potrebbe fare un elenco molto lungo delle similitudini. Non direi che si tratta di plagio, poiché il punto sul quale vertono le storie è differente: l’ispirazione è però chiara.

Voto: 8. Dietro a tutto ciò riesco a vedere del genio, e dell’attenzione: devo ammettere che seguire questa serie è pesante sull’attenzione, e pesante sul cuore. Più di una volta ho fatto fatica a guardare la puntata successiva, per semplice stanchezza mentale: non è un difetto in sé, ma diminuisce la possibilità di gradimento.

Consigliato a: chi non ha paura di logorarsi le sinapsi; chi ha amato Evangelion, e vuol vedere qualcosa di vagamente assomigliante; chi vuol vedere uno dei modi più struggenti per dire addio.

Tokyo Magnitude 8.0

…Per gli amanti dei disaster movies, ecco qualcosa di adatto!

Tokyo Magnitude 8.0


Mirai è una ragazzina di prima media all’inizio della sua pubertà, e pertanto in guerra con il mondo. Il primo giorno delle vacanze estive viene incaricata dalla madre di accompagnare il suo fratellino Yuuki, di otto anni, ad una mostra di robotica ad Odaiba.
Tutto sembra andar bene, ma quando stanno per tornare a casa succede l’impensabile: un portentoso terremoto colpisce la più grande megalopoli del mondo, gettando nel caos l’intera popolazione! Riusciranno Mirai e Yuuki, accompagnati dalla loro compagna di viaggio Mari, a tornare a casa a Setagaya, a quasi 20 km da casa? Quali pericoli si nascondono in una città colpita da un terremoto di magnitudine 8?

La trama di questa breve serie da undici puntate è molto semplice: si tratta di un viaggio in un ambiente quasi postapocalittico: il sistema di trasporti è interamente saltato, e palazzi pericolanti incombono sui tre protagonisti. La trama non è però la parte importante di questo anime: esso è infatti un viaggio nell’umanità in ogni sua sfaccettatura: gentile, arrogante, pietosa, irrispettosa, triste, giocosa e quant’altro.
Il viaggio che ci si ritrova a seguire tocca infatti ogni tipo di persona: si passa dalle folle ignoranti e pericolose, che spintonano e dividono, a persone che nonostante gravi lutti danno tutti loro stessi per aiutare il prossimo (probabilmente anche per tener occupata la mente). Si incontrano i soccorritori, sotto stress ma spesso con un sorriso, e i medici, confrontati con l’ira delle persone contro di loro: si vede come una situazione di assoluta emergenza può trasformarsi per il baratro della disperazione per chi ha perso una persona cara, e chi invece ne segue gli sviluppi poiché affascinato dalle meccaniche di soccorso.
Tutto ciò avviene in fugaci contatti, poiché ogni puntata fa proseguire il viaggio con diverse persone che si incontrano in questa o quella situazione: ogni cosa lascia però una traccia nella psiche dei tre viaggiatori, che ne risultano pertanto arricchiti.

Parlando di loro tre, bisogna dire quello che è a mio parere il punto più eccezionale di Tokyo Magnitude 8.0: l’umanizzazione dei protagonisti. In sole undici puntate la BONES riesce a creare tre persone vive, pulsanti, reali. Iniziamo parlandi di Mari, l’adulta del gruppo: si prende cura dei due bimbi con un affetto che inizialmente pare incomprensibile e apparentemente dettato solo da motivi di trama, ma con il tempo si arriva a capire come mai lei si attacchi così tanto anche a bambini non suoi. Tragedie personali e la necessità di tornare a casa, unitamente alla stessa direzione di viaggio, la portano a diventare quasi una seconda madre con loro. Risulta paziente oltre ogni limite, ma lo è per necessità: è l’unica del gruppo che può reggere il carico di stress che una simile situazione comporta, e lo fa egregiamente.
Passando a Mirai, si può dire che è il personaggio che cresce di più nell’intero arco narrativo. Come detto, inizia come la classica bambina di 11-12 anni per cui i genitori son cattivi, la scuola è noiosa, il fratellino è stupido e i passatempi sono una rottura: capisce quanto tiene alla sua vita e alla sua consuetudine solo quando esse vengono stravolte, e durante il viaggio si nota un poderoso e credibile processo di maturazione dovuto alle varie emergenze a cui si trova a far fronte.
Si finisce con Yuuki, un bambino gioioso e -come buona parte dei bambini di sette/otto anni- desideroso di affetto e di armonia. Sin dall’inizio dimostra con sincerità i suoi sentimenti, e le motivazioni dei suoi gesti sono quasi sempre nobili: diversamente dal solito, inoltre, non è un bambino lamentoso che fa i capricci e che rallenta il gruppo apposta e, anzi, spesso tenta di fungere da conciliatore per la più emotiva ed instabile Mirai.
Questa meravigliosa caratterizzazione dei personaggi porta ad un senso di attaccamento quasi viscerale, che porta a sincero dispiacere nel caso di problemi per il trio e a gioia quando le cose funzionano bene: tutto ciò getta inoltre le basi per un finale assolutamente imprevedibile, emozionantissimo ed estremamente intenso.

Dal punto di vista un po’ meno brillante, si può segnare che alcune puntate nella sezione centrale sono forse un filino sottotono rispetto all’inizio e alla fine: inoltre, alcune cose vengono forse tirate un po’ troppo per le lunghe e rendono la visione un filino lenta. Lungi da me voler dire che è una serie noiosa o poco appassionante, ma qualche minima sforbiciatina qui e là avrebbe potuto forse portare un effetto ancor migliore, mantenendo sempre alto il livello di tensione che risulta generalmente presente.

Sui disegni ho da dire due cose molto belle, e una un po’ meno. La prima cosa bella è che gli sfondi sono molto belli, e vedere Tokyo devastata con tutti i suoi simboli abbattuti fa un effetto strano ma assolutamente affascinante; la seconda cos buona è che i personaggi sono disegnati in maniera decisamente più semplice, ma l’espressività è perfetta e trasmette brillantemente l’emotività dei personaggi. La cosa un po’ meno gradita è che i due elementi ogni tanto non si mischiano alla perfezione, e nelle immagini più ampie ci si ritrova con sfondi dettagliatissimi e dei personaggi quasi stilizzati al loro interno, creando un effetto di distacco che un po’ rovina l’effetto.
Le musiche si tengono in sottofondo, senza mai prendere il sopravvento: alcune scelte sono ben fatte, ma in generale non si fanno notare. Simpatica opening ed ottima ending; è inoltre da fare un encomio alle seiyuu per aver fatto un egregio lavoro di doppiaggio. D’altra parte, quando una delle doppiatrici fa Kobayashi di cognome…

Insomma, come si può capire ho apprezzato moltissimo Tokyo Magnitude 8.0. Per quanto la storia sia molto basilare secondo me raggiunge i limiti dell’eccellenza, grazie a poderosi personaggi che sono confrontati con vicende terribili. Ritengo sia uno dei più bei lavori del 2009.

Voto: 9,5. Ho un debole per serie con personaggi a cui ci si può correlare, e la cui umanità sorpassi quella di molta gente esistente: Tokyo Magnitude 8.0 è una di esse. Eccezionale.

Consigliato a: chi ama le serie dove non si ride ma si spera; chi ha amato personaggi come Balsa di Seirei no Moribito, e vuol vederne un alter ego moderno; chi vuol conoscere la rana aliena a.k.a. l’alieno col telefono a.k.a. il re delle merendine a.k.a. il lord dei pisolini.

Wrath of the Ninja

…Ninja, ninja e ancora ninja!

Wrath of the Ninja


In un tempo in cui il Giappone è pieno di samurai e ninja, una grande guerra è scoppiata. Le tre più grandi scuole di ninja della nazione sono state obliterate dal mostruoso potere di un crudele tiranno, che sta tentando di ottenere il potere del re dei demoni per i propri biechi scopi. Gli ultimi tre sopravvissuti delle varie scuole sono in possesso di antiche armi che si narra possano bandire anche il male più oscuro: sarà vero? Riusciranno a realizzare il loro disperato piano per la salvezza dell’umanità?

Come si può notare, la trama non è esattamente l’emblema dell’originalità. Durante il film, che dura circa un’ora e mezzo, ci sono tuttavia una quantità impressionante di avvenimenti: talmente tanti, infatti, che il tutto diventa caotico e pressoché incomprensibile. Ogni tre minuti si cambia posto, si ottengono nuove alleanze, qualcuno di importante (i.e. conosciuto due minuti prima e visto per otto secondi netti) muore o si riceve qualche sconvolgente rivelazione. Questo porta l’intera struttura narrativa, che sarebbe stata anche ben congegnata se utilizzata in una serie di 6 o addirittura 13 puntate, ad essere dunque traballante e poco interessante.

I personaggi principali, come detto sono tre: in realtà c’è Kasumi che è la protagonista assoluta, Hyuga che è il coprotagonista -seppur con meno importanza- e Hagakure che li segue tranquillo e picchia quel che c’è da picchiare. La personalizzazione è parecchio carente, soprattutto a causa del problema sopra elencato: durante tutta l’assurda corsa che devono fare per arrivare al finale, non c’è tempo per capire altro che due cose: la prima è che Hyuga ci prova con Kasumi (e questo si capisce dal terzo minuto), la seconda è che Kasumi è un maschiaccio (e questo si capisce dal primo minuto). Fine.
Gli altri (numerosi) personaggi che vengono incontrati sono dei baleni che attraversano lo schermo, troppo fulminei per ricordarne anche solo il nome.

In un anime sui ninja, i combattimenti non possono mancare: essi hanno fortune alterne. Sono parecchi (come è giusto che sia), e alcuni son fatti in maniera simpatica – e bella sanguinolenta – mentre altri risultano meno interessanti. Sono generalmente parecchio brevi, ma qui e là c’è qualche piccola chicca visiva che si fa apprezzare: di certo il sangue non è stato risparmiato.
I nemici sono abbastanza anonimi, e anche il supercattivone non fa molto: si capisce che è cattivo, che è molto cattivo, e nulla più. Questo tuttavia non stupisce: se non hanno dato tempo ai protagonisti, figuriamoci ai loro antagonisti…

Il disegno è forse il punto migliore di questo OVA: gradevole nonostante abbia oramai circa vent’anni, è animato in maniera pulita e fluida. Il sonoro è invece quasi del tutto assente.

Insomma, Wrath of the Ninja è quasi una prova generale per il fratellone che comparve quattro anni dopo, il notevolissimo Ninja Scroll: si nota qualche buon appiglio qua e là, ma troppi sono i difetti che ne fallano la visione rendendola, di fatto, poco interessante.

Voto: 5. La fretta è cattiva consigliera.

Consigliato a: chi ama tanto, tanto, tanto i ninja; chi vuole un po’ di sangue buttato sullo schermo; chi vuol vedere cervelli esplodere in volo.

Ima, Soko ni Iru Boku

…In alcune serie, la luce alla fine del tunnel semplicemente non c’è.

Ima, Soko ni Iru Boku

Shu è un ragazzo qualsiasi, che ha avuto una giornataccia perdendo malamente un incontro di kendo e vedendo la ragazza dei suoi sogni andare via con un altro. Tornando a casa vede, sul comignolo di una fabbrica abbandonata, una ragazza seduta che fissa il tramonto: decide pertanto di andare a farle compagnia.
D’improvviso, tuttavia, dal nulla compaiono delle specie di dragoni metallici che tentano di rapire la poveretta, che si chiama Lala Ru; Shu decide di tentare di proteggerla, con l’esito di venir teletrasportato insieme a tutti quanti i presenti in un mondo alternativo, dall’aspetto postapocalittico! Egli viene gettato in prigione ed in seguito arruolato come soldato nell’esercito del perfido e psicopatico re Hamdo, che punisce ogni minimo sgarro con la morte.
Riuscirà Shu a salvare Lala Ru dalle grinfie del malefico regnante? Ma chi è in realtà la misteriosa ragazza? E come si potrà fare a fermare la follìa distruttrice che sta falcidiando l’intero pianeta?

Nei primi minuti la serie pare una delle tante sulla crescita di un ragazzo, ma rapidamente si capisce che il tono è totalmente diverso: è infatti uno degli anime con meno speranza e positività che mi sia capitato di vedere, paragonabile probabilmente solo a Grave of the Fireflies (che tratta anche argomenti simili).
Si assiste infatti ad una micidiale guerra, che però si differenzia da molte altre che vengono rappresentate solitamente: in questo caso è una guerra di pezzenti che uccidono altri pezzenti con la speranza che prima o poi il tutto finisca. Una guerra tra poveri e tra disperati, comandati da qualcuno che si disinteressa totalmente alle loro vite.
Non viene rispettato alcun diritto umano, non c’è pietà, non c’è salvezza: per rifornire i ranghi che si assottigliano a seguito delle battaglie i soldati sono obbligati a razziare altri villaggi, uccidere gli uomini (potrebbero ribellarsi) e prendere bambini, ragazzi e donne. I giovani diventeranno nuovi soldati-bambino, e le donne verranno ingravidate per fornire -sul lungo periodo- ulteriori truppe: in seguito, i nuovi rapiti andranno a razziare un altro villaggio e via dicendo, in un infinito vortice di oppressione e violenza.
Se tutto ciò sembra fin troppo orribile, si può tuttavia pensare che è ciò che accade anche al giorno d’oggi in alcune guerre tra le popolazioni più povere del pianeta: il fatto che nessuno ne parli mai non nasconde il problema, che questo anime porta alla luce in maniera abbastanza diretta.

Andando nello specifico della storia, si può dire che la trama non è particolarmente complessa ma funziona e porta a comprendere bene l’entità della disperazione che colpisce i vari personaggi che si muovono all’interno delle puntate.
I due protagonisti, ironicamente, sono quelli che hanno meno sviluppo e i cui personaggi sono meno interessanti: Shu è il solito fastidioso protagonista che rimane positivo nonostante le incredibili nefandezze che accadon attorno a lui, e Lala Ru è semplicemente un personaggio muto e immobile, che serve solo ad avere un obiettivo su cui Hamdo si focalizza, e permette lo svolgimento della trama.
I coprotagonisti, invece, portano alla luce interessanti aspetti: praticamente chiunque ha una storia tragica alle spalle, e i diversi modidi relazionarsi con le perdite e gli abusi subiti sono ben realizzati.

Nella prima parte della storia si assiste alla vita di Shu e di coloro che sono attorno a lui nella fortezza di Hamdo, Hellywood: è secondo me la parte più interessante poiché in molte diverse maniere si vede come ognuno tenti di aggrapparsi alle poche speranze residue, e come provi a vivere senza pensare agli orrori che vengono giornalmente commessi.
Nella seconda metà della serie, con l’uscita di Shu e Lala Ru dalla fortezza, ci sono un paio di puntate un po’ sotto tono: tutta la serie ha un passo relativamente lento (senza tuttavia arrivare al punto di diventare noioso), e con l’entrata in scena della cittadina di Zari Bars ogni tanto alcune scene vengono un po’ troppo dilungate. I problemi cambiano, risultando secondo me un po’ meno interessanti di quelli inizialmente affrontati, ma probabilmente ciò accade perché il concetto di “violenza vs pace” è trattato in molti altri lavori, e pertanto colpisce di meno.

Il disegno non è niente di eccezionale: l’anime risale a dieci anni fa, ma in effetti ci sono altri lavori degli stessi anni con uno stile molto migliore. Anche le musiche non mi hanno particolarmente colpito, con opening ed ending carine ma che mal si adattano all’ambiente cupo e senza speranza che la serie trasmette.

Insomma: Ima, Soko ni Iru Bok (anche chiamato Now and Then, Here and There) è secondo me un ottimo lavoro che tratta argomenti che difficilmente si incontrano altrove, e che magari può anche far riflettere qualcuno su quanto l’essere umano può diventare crudele nelle dovute circostanze. Ci sono alcuni difetti (personaggi non eccezionali, storia un po’ lenta, finale deboluccio), ma rimane comunque una serie che vale la pena di vedere se si riesce a sopportare di guardare tredici puntate senza mai sorridere nemmeno una volta.

Voto: 8,5. Insolita serie che mi ha spiazzato, e che in alcuni punti mi ha davvero colpito.

Consigliato a: chi pensa che la guerra sia cosa buona e giusta; chi desidera un po’ di tristezza e tragedia proiettata sullo schermo; chi vuol vedere quanto a lungo un bastone di legno può durare in una serie.

Grave of the Fireflies

…Il più triste dei lavori dello Studio Ghibli, sugli orrori della guerra.

Grave of the Fireflies

Ci troviamo nei primi mesi del 1945: la guerra in Giappone è oramai nella sua fase più tragica, con bombardamenti da parte degli americani che giornalmente decimano la popolazione. Seita è un ragazzino, che vive con la sorellina Setsuko e la madre: il padre è arruolato in marina, a combattere il nemico. Tra corse verso i rifugi e allarmi aerei, la vita sembra scorrere in maniera quasi normale, fino a quando un malaugurato giorno la madre muore in un bombardamento aereo, che distrugge nel contempo la casa dove avevano abitato sinora.
Inizia da lì il disperato viaggio dei due protagonisti, catapultati in un terribile mondo di privazioni, fame, malattie e stenti. Come riusciranno ad arrangiarsi per campare il più possibile?

L’anime inizia in maniera abbastanza insolita: nei primi 30 secondi di proiezione, si scopre che il protagonista muore di fame e di stenti, tra l’indifferenza della gente in una stazione, il 21 settembre 1945. Si capisce pertanto sin da subito che non ci sarà un lieto fine, e l’unica domanda che accompagna l’intero film è “come, e perché?”
Si torna quindi indietro di qualche mese, fino a quando non capita il sopraccitato bombardamento che catapulta Seita e Setsuko all’inferno; man mano che il film prosegue, la disperazione si fa via via sempre più strada nei cuori dei due poveri ragazzini che le tentano tutte per sopravvivere, ma le cui speranze diventano sempre più flebili.

Essendo principalmente Seita quello che agisce durante tutto il film, il suo personaggio è notevolmente sviluppato. Il suo comportamento è logico e ci si trova a pensare che non avrebbe potuto fare altrimenti in molti casi, considerando anche che ad un’età stimabile di 12-13 anni si ritrova a dover badare alla sorellina, inventarsi sistemi per trovare cibo quando un’intera nazione sta morendo di fame e combattere contro i problemi che continuano ad accumularsi a causa della loro situazione assolutamente precaria.

Va detto inoltre che un lavoro come questo è estremamente raro: i giapponesi evitano il più possibile di parlare della seconda guerra mondiale ancora oggi, dato che è una ferita che non si è mai completamente chiusa. È facile capire che nel 1988, quando Grave of the Fireflies venne creato, la resistenza fosse ancora maggiore: al coraggio dello Studio Ghibli va un ulteriore plauso.
Questo è infatti un ottimo lavoro per rendere con chiarezza l’idea di quanto possa essere orribile la guerra: è facile pensare a bombardamenti, scontri a fuoco, morti e feriti. Raramente però si pensa agli effetti a medio-lungo termine che eventi del genere mettono in moto, e che spesso sono ancora più terribili dei morti di guerra “diretti”. Per tali motivi in alcuni passaggi è anche abbastanza crudo (sebbene non si vedano sbudellamenti veri e propri), come è giusto che sia.

La grafica dimostra qualche annetto, come è giusto che sia, ma risulta comunque piacevole ed interessante da guardare. L’audio aiuta bene a convogliare il senso di disperazione e di tragedia che permea tutto questo lavoro, e pertanto è decisamente apprezzabile.

Insomma, Grave of the Fireflies è un lavoro abbastanza inusuale per lo Studio Ghibli, che in quasi tutti gli altri lavori ha puntato verso la speranza: in questo caso ci si inabissa unicamente in un dolore che diventa sempre più immenso, fino a diventare insopportabile.

Voto: 9. Colpisce diretto allo stomaco, come un lavoro di questo genere dovrebbe fare.

Consigliato a: chi vuole vedere qualcosa di triste; chi si vuol rendere conto di come si faceva, in una nazione civilizzata come il Giappone, a morire di fame per le strade; chi pensa che la guerra sia una cosa bella, solo perché non l’ha mai vista in casa propria.

Project ICE

…Lo sterminio degli uomini, la guerra civile, la fine del mondo. E poi cos’altro?

Project ICE

Ci troviamo nel 2012. Qualche tempo fa la MIR, cadendo sulla terra, ha liberato un micidiale virus che ha portato alla morte dell’intero genere umano di sesso maschile (???).
Questo ha chiaramente creato infiniti problemi, dalla politica alla produzione di beni, ma soprattutto nell’ottica della riproduzione della specie: con sole donne, la generazione attuale rischia di essere l’ultima!
Ci sono fazioni che si rassegnano al loro destino e credono che morire sia opera del fato, ed altra gente che tenta di combattere con tutte le forze tale apparentemente inevitabile fine.
Hitomi è la leader di un gruppo di Guardiane, una truppa specializzata nel combattere il bioterrorismo che sta minando le poche sacche di civiltà ancora presenti sul pianeta: si imbatte pertanto negli ICE, corpi di donna che sono come congelati, e che -se toccati- reagiscono tramutandosi in esseri pericolosissimi. Ma cosa sono questi ICE? A chi è dovuta la loro reazione? Possono portare ad una rinascita del genere umano, oppure ne determineranno la distruzione?

Inizierei a commentare la “trama”. Quanto detto qui sopra è più o meno tutto ciò che di intelleggibile esiste in Project ICE: il resto è una marmaglia di avvenimenti TOTALMENTE casuali. Una sequenza di eventi assolutamente insensata, cambi di fronte senza spiegazioni, uccisioni di personaggi assolutamente immotivate, nuovi nemici senza alcun preavviso e quant’altro non sono che la punta dell’ICEberg (haha, battutone). Mi mancano le parole per descrivere il totale minestrone che è stato creato: è come se avessero preso una serie da 26 puntate, l’avessero compressa in 3 OVA e poi gli avessero dato una bella frullata. Non credo ci siano altre spiegazioni, dato che non esiste nemmeno la scusa del “è stato tratto da un manga, hanno dovuto pressare tutto”, dato che questo lavoro nasce a tavolino e non da un’altra opera già esistente.

I personaggi, in virtù di quanto detto poco fa, non hanno nessuna credibilità: la protagonista cambia comportamento tanto per divertimento, una bambina che cerca tutta preoccupata la sorella non perde tempo, una volta che la vede mentre sta parlando con qualcun’altra, ed imbraccia un bazooka per eliminarle entrambe… per poi sfogarsi spaccando di mazzate la suddetta sorella, e poi tornando amiche come prima. Entrambe le fazioni agiscono senza nessuna motivazione apparente: coloro che voglion lasciarsi morire vaneggiano giustificazioni dovute agli esperimenti che gli uomini hanno eseguito anni fa che hanno dato nascita a persone decisamente infelici, e quindi “la scienza non può fare niente per noi quindi moriremo tutti”. Coloro che propengono alla vita sembrano più ragionevoli (vivere è sempre un’ottima motivazione per far qualcosa), ma i mezzi utilizzati sono semplicemente illogici.
Gli stessi ICE rimangono senza logica: si capisce quale sia la loro funzione teorica, ma il funzionamento effettivo rimane misterioso, e la loro forma e applicazione non hanno alcun senso.

Hmm… ma ci sarà qualcosa di buono, allora! I combattimenti? In fin dei conti, nei primi dieci minuti di proiezione si vedono un bel po’ di sbudellamenti assortiti: peccato che la cosa finisca lì, e che le successive gocce di sangue vengano soltanto versate, in maniera decisamente poco sensazionale, nel finale.
Potremmo allora andare a cercare nel fanservice, dato che il mondo è di sole donne: purtroppo anche qui caschiamo male, perché a parte un paio di decisamente poco attizzanti scene di tette al vento qui e là (ovviamente senza motivo, non credo sia necessario specificarlo) non c’è null’altro.

Magari la grafica? Per essere del 2007, il disegno è un tantinello scarseggiante ma non pessimissimo: ciò che è inaccettabile è la CG, che è a livelli di orrore senza precedenti.
Eventualmente il comparto audio… mica tanto. Le musiche sono quasi assenti (e questo ci può anche stare, per dare il tono cupo e angosciante che si desidera), e le seyuu che hanno doppiato i personaggi sono davvero pessime. Incuriosito da tale insolito fatto ho controllato: parte delle doppiatrici appartiene al gruppo idol AKB48! Questo spiega molte cose…

In definitiva, tempo che di Project ICE non ci sia da salvare davvero nulla. Qui e lì c’è qualche minuto apprezzabile, ma non ce ne si fa nulla senza qualcosa che sorregga tali minuscole parti: probabilmente la sola cosa decente è il fatto che duri davvero poco, e con meno di due ore la sofferenza sia finita.

Voto: 4. Tenetevene lontani, se potete.

Consigliato a: chi ha il gusto dell’orrido; chi non si offende se un anime non ha nessuna logica; chi vuol vedere un fucile caricato a mini-bombe nucleari.

Gilgamesh

…Un futuro apocalittico di superpoteri e angoscia.

Gilgamesh

Ci troviamo in un imprecisato futuro. Quindici anni prima degli avvenimenti narrati, un grave disastro colpì la terra: il più grande centro scientifico del pianeta, che si stava occupando di estrarre il DNA di Gilgamesh -metà uomo e metà Dio- fu colpito da un attacco terroristico, rilasciando un’ondata elettromagnetica che impedì l’utilizzo di qualsiasi computer, e coprì il cielo con una schermata riflettente che impedì da allora di vedere il cielo.
Seguiamo ora le vicende di Tatsuya e Kyoko, il figlio e la figlia del presunto attentatore: scappano inseguiti dai creditori della Yakuza a causa di debiti fatti dalla madre sulla loro pelle, e vivono alla giornata nella città oramai semidistrutta fuggendo da chiunque.
Quando vengono messi alle strette e quasi catturati, tuttavia, fanno due incontri molto interessanti: prima conoscono un misterioso giovane che li invita a seguirli e ad unirsi a loro, e subito dopo una contessa che chiede loro la stessa cosa! Per risolvere il problema, coprendo il debito che li opprime, la compressa “compra” pertanto i due giovani, portandoli a vivere con se con altri tre ragazzi che sembrano avere poteri psichici molto potenti.
Ma come mai tanto interesse per loro, dopo tanti anni nelle fogne a scappare da tutto e da tutti? Chi è la misteriosa contessa? cosa vuole da loro? E come mai anche Tatsuya ha sviluppato i potenti poteri psichici di cui sopra? Cosa si nasconde dietro al Twin X, l’attentato di quindici anni fa?

Come si può notare, di carne al fuoco ce n’è veramente parecchia. Peccato che la parte interessante finisca qui: come prima cosa infatti commeterò la fallimentare struttura della storia.
Innanzitutto va detto che il ritmo è LEN-TIS-SI-MO: io apprezzo anime tranquilli e dal passo lento (come possono essere Mushihsi o Kino no Tabi), ma qui si parla di vera e propria noia. Molte delle 26 puntate passano senza che accada assolutamente nulla, con la semplice impressione di aver buttato venti minuti al vento.
Quando accade qualcosa, inoltre, raramente ha senso. Per un pezzo della serie abbastanza consistente (5-6 puntate) si vedono i protagonisti che tentano di aiutare una società ad attivare un potente marchingegno che porterebbe alla dissoluzione di una parte dello Sheltering Sky, il cielo riflettente: purtroppo falliscono, e tale costruzione esplode uccidendo migliaia di persone. Quindici minuti dopo tutto ciò non ha più alcun significato, e si prosegue su un filo narrativo totalmente differente!
Altri esempi simili sono facilmente reperibili, con cose importantissime nelle prime puntate (come la trasformazione di uno dei due gruppi in Gilgamesh, cioé in esseri potentissimi e distruttori) che vengono totalmente dimenticate e trascurate per tutto il resto della serie oppure personaggi di cui si fa la conoscenza senza alcuna motivazione (vedasi ad esempio la collega di Kyoko).
L’unica cosa decente in questo campo è, all’inizio, il fatto che effettivamente non si capisca quale delle due fazioni sia quella “buona”, quale quella “cattiva”, o se entrambe facciano semplicemente i loro interessi: ovviamente tutto ciò viene a cadere dopo un po’, portando alla succitata tragicomica “trama” e ad un finale quasi imbarazzante per la sua inutilità e mancata correlazione con quanto narrato per le restanti venticinque puntate.

Sui personaggi è stato fatto un lavoro lievemente migliore. Inizialmente il fulcro sono ovviamente i due fratelli, e viene preso molto tempo nel narrare il cambiamento nel loro rapporto estremamente intimo e vagamente morboso: passando da una situazione in cui ognuno ha unicamente l’altro ad una dove ci sono molte altre cose in ballo, chiaramente la sintonìa rischia di spezzarsi e l’idilliaco rapporto di guastarsi. Questo viene rappresentato decisamente bene, e nelle prime 6-7 puntate lo sviluppo del personaggio (soprattutto di Tatsuya, che essendo il più giovane è più influenzabile dalle novità) giustifica le carenze narrative e la tragica lentezza. Anche i compagni di (s)ventura inizialmente hanno i loro punti d’interesse: ognuno con una diversa storia alle spalle, hanno modi diversi di approcciarsi ai due nuovi venuti. Infine, anche la contessa in questa fase iniziale mostra dei lati che avrebbe potuto essere interessante sviluppare.
Ovviamente, tutto ciò inizia ad essere trascurato quando la storia cade via via nell’inconsistenza: poco dopo l’abbandono di Kyoko dell’hotel dove soggiornano si spezza la magia, e con un paio di conclusive puntate termina lo sviluppo tra i due personaggi, diventando piatto e monotono. Gli altri ragazzi diventano comparse inutili, che servono solo a far narrare ad altri personaggi pezzi di trama più o meno fantasiosi, senza mai interagire davvero con l’ambiente circostante. Idem dicasi per la contessa, che da personaggio oscuro ed intrigante diventa quasi una mammina disperata.

I disegni non sono granché, ma è uno stile abbastanza particolare e a qualcuno potrebbero piacere: ciò che è invece mal realizzato è tutto il comparto dell’animazione, che risulta sempre legnoso e banale. Questo porta tutti i combattimenti (che non sono tantissimi, ma ce ne sono alcuni) ad essere poco guardabili, complice anche un utilizzo totalmente stupido dei mostruosi poteri (teletrasporto, onde energetiche, bordate capaci di respingere palazzi che crollano,…) che fa solo venir voglia di prendere a schiaffi tutti i coinvolti.
L’audio se la cava meglio, essendo spesso una melodia da pianoforte: opening ed ending sono carine, ma poco si adeguano con l’ambiente estremamente cupo, paranoico e claustrofobico che permea l’intera serie.

Insomma, ci sono lati positivi in Gilgamesh? Io ne ho trovati ben pochi. Il problema principale è l’estrema noia che questo anime porta con sé, e che amplifica gli altri problemi che avrebbero in potuto essere mitigati con un ritmo un po’ maggiore. Ho fatto davvero fatica a finirlo: ricorda Texhnolyze nell’ambientazione ma non ne assume le parti buone, limitandosi ad assorbire quelle peggiori.
All’inizio da qualche speranza, e ci sono un paio di puntate dove vengono portati elementi interessanti sul comportamento dei personaggi: il tutto però finisce lì, scadendo inesorabilmente.

Voto: 5. Una discreta sofferenza finirlo.

Consigliato a: chi apprezza gli anime lenti, molto lenti, estremamente lenti; chi vuole un mix tra miti della mesopotamia, superpoteri alla Dragonball, depressione e civiltà future senza PC; chi vuole lambiccarsi il cervello su discorsoni di decine di minuti, per capire alla fine che non volevano dire niente.

Solty Rei

Un Noir ambientato nel futuro:

Solty Rei

Ci troviamo in un imprecisato futuro. Siamo a dodici anni di distanza dal tragico Blast Fall: dall’aurora che sovrasta in ogni momento la città scese un globo di energia che rase al suolo quasi tutto, ivi incluse numerosissime vite.
Roy Revant è un cacciatore di taglie di vecchio stampo: aria truce, cappotto sempre addosso e violenza quanto basta, vive da allora cacciando i criminali nella speranza di ritrovare la sua figlia scomparsa nel tragico incidente di cui sopra.
La tecnologia del Resembling si è particolarmente sviluppata dopo la tragedia: molte persone, dopo tale evento, sono rimaste gravemente ferite e delle parti cibernetiche sono state innestate in loro, rendendole a tutti gli effetti più potenti.
Nella sua attività di cacciatore di taglie, Roy si ritrova in una situazione particolarmente pericolosa in cui viene salvato fortunosamente da una misteriosa ragazza con una potenza ineguagliabile: dopo vari tentennamenti essa viene data in affidamento a lui, e viene nominata Solty. Lei non sa nulla del suo passato, e curiosamente attorno a lei molte persone iniziano a gravitare… ma quale è la sua origine? Come mai così tanta gente è interessata a lei? E cosa si nasconde dietro al cataclismatico Blast Fall?

In primis, una valutazione va data alla storia in sé. Inizialmente mi pareva davvero debolissima: un’idea iniziale non del tutto da buttare era stata devastata da 20 puntate su 26 di filler, senza praticamente alcuno sviluppo. Nelle ultime puntate, tuttavia, vengono estratte alcune idee niente male: da un punto di vista riassuntivo si può dire che le idee c’erano, ma il loro sviluppo è singhiozzato e frammentario. Per quasi tutta la serie i personaggi agiscono senza alcuna apparente logica, per poi ricever spiegazioni solo alla fine: vedere tuttavia otto ore di anime senza capirci nulla non è divertente.

Parlando di personaggi, si va a toccare il punto più dolente di tutti: i protagonisti. Essi sono di una piattezza incredibile, stereotipati e monotoni in ogni loro aspetto. Roy nasce come classico burbero dal cuore ferito, Solty pare la classica ragazzina pseudo-aliena dissociata, Miranda si palesa come la spalla di Roy in ricordo di vecchie amicizie… e tutti loro non fanno un millimetro più di quanto il loro personaggio richieda.
Il gruppo di fuorilegge risulta noioso e, nonostante la loro teorica parte di importanza non indifferente, paiono delle inutili comparse: lo stesso si può dire delle quattro superpoliziotte, le cui vicende occupano intere puntate ma che risultano assolutamente non interessanti.
I “cattivi” agiscono in maniera stupida e illogica, buttando all’aria centinaia di anni di pianificazione per qualche capriccio (il classico “spiego tutto il mio piano solo per farmi fregare alla fine”): una vera delusione.

L’ambientazione non è malaccio, ma gestita dai personaggi di cui sopra risulta anch’essa poco affascinante: durante la storia i personaggi si trovano sempre più invischiati in tragiche vicende (con un paio di colpi di scena ben piazzati e ben congegnati, ma mal sfruttati nel proseguio della narrazione). È come se avessero voluto piazzare un Noir anni ’20 in un ambiente post-apocalittico, con come risultato un minestrone con poco sapore.

I disegni, per essere della GONZO e del 2005, sono parecchio scarsi: anche la CG è mal integrata con il tratto usuale. L’opening personalmente non mi è piaciuta, ma ho trovato di inusuale qualità la musica durante le puntate: almeno su questo punto si sono messi d’impegno.

Insomma, cosa rimane dopo la visione di Solty Rei? Rimane l’impressione di aver guardato una serie nata con qualche buona idea, e sviluppata in maniera raffazzonata e poco curata. 20 puntate di filler, 4 puntate di sviluppo a passo di corsa e le ultime due puntate di altri filler non fanno che lasciare un retrogusto amaro per qualcosa che avrebbe potuto essere, e non è stato.

Voto: 5,5. Buoni spunti alle idee, ma lo sviluppo non raggiunge la sufficienza.

Consigliato a: chi ama il genere Noir rivisitato; chi desidera una storia tragica, ma con un inusuale lieto fine; chi vuole incontrare delle poliziotte con il nome di automobili.